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Petrolio: giro di boa dell’Arabia Saudita è di cattivo auspicio

1/14/2015 | Christophe Bernard

Il prezzo del greggio (Brent) è passato da 115 a 50 dollari in sei mesi, spingendo la Bce ad attuare il QE mentre la Fed potrà prendere ancora tempo prima di alzare i tassi, spiega il chief strategist di Vontobel


Di seguito pubblichiamo un commento a cura di Christophe Bernard, chief strategist di Vontobel, sulle conseguenze nei mercati del calo del prezzo del petrolio (qualità Brent), che è crollato de 50% da giugno 2014, passando da 115 dollari USA al barile a meno di 50 dollari.

Dopo un prolungato periodo di debolezza dei prezzi del petrolio – tra il 1990 e il 2003 si attestavano in media su 20 dollari USA al barile – e di bassi investimenti nell’attività esplorativa, all’inizio del secolo l’aumento della domanda della Cina e dei paesi emergenti ha fatto lievitare i prezzi a una media di 90 dollari USA tra il 2006 e 2014. Il rialzo dei prezzi ha favorito gli investimenti nell’esplorazione petrolifera e nelle tecnologie affini. Le attività offshore in Africa occidentale, Brasile e nel Golfo del Messico, per esempio, hanno condotto a un incremento della produzione non - OPEC.

L’impatto delle innovazioni tecnologiche si manifesta in modo particolarmente palese nel “fracturing idraulico”, il metodo per l’estrazione di combustibile fossile dalle rocce argillose che ha rivoluzionato l’industria petrolifera e gassifera statunitense. Dal 2006, la produzione americana di petrolio è quasi raddoppiata, passando da 5 milioni di barili di petrolio equivalente (boe) agli attuali 9 milioni, superando anche le attese più ottimistiche. Inoltre i costi unitari di produzione stanno scendendo grazie ai progressi infrastrutturali e tecnologici. Per gran parte degli ultimi 40 anni, l’Arabia Saudita, prima nazione esportatrice di petrolio del mondo, ha agito da "swing producer", cioè era in grado di influenzare i prezzi, tagliando o aumentando la produzione. Che il produttore con i più bassi costi di produzione assumesse questo ruolo era insolito e anche contrario a ogni logica economica.

Tutto ciò appartiene ormai al passato. A quanto pare, il paese è ora determinato a difendere a spada tratta la sua quota di mercato. Sul piano mondiale, l’attuale eccedenza di offerta, stimata a 1,5-2 milioni di barili, si tradurrà in una riduzione degli investimenti in aree ad alto costo come il Mare del Nord, nei giacimenti profondi al largo delle coste brasiliane, nelle sabbie bituminose canadesi e anche nei progetti di shale oil e shale gas negli USA. Il crollo del prezzo del petrolio incide su molti asset e mercati – dalle compagnie petrolifere e i loro fornitori alle valute dei paesi esportatori di petrolio come la Russia, il Venezuela e la Norvegia. Inoltre il deterioramento della qualità creditizia di importanti (importantissimi) emittenti di debito aziendale, come la brasiliana Petrobras e la russa Gazprom, potrebbe destabilizzare i mercati anche al di là del settore petrolifero. D’altro canto, il calo del prezzo della benzina rappresenta un notevole vantaggio per i consumatori occidentali. Ciò vale in particolare per gli Stati Uniti, dove questo effetto equivale a un taglio annuale delle imposte pari a 150 miliardi di dollari USA. 

In passato i forti ribassi dei prezzi del petrolio hanno invariabilmente stimolato l’attività economica. Inoltre, l’inflazione headline continuerà a scendere, lasciando alla Federal Reserve (Fed) un sufficiente spazio di manovra per stabilire il ritmo delle sue prossime manovre rialziste. In Europa, dove incombe il pericolo di deflazione soprattutto a causa del calo dei prezzi energetici, la Banca centrale europea (BCE) attuerà probabilmente il suo sovereign quantitative easing, cioè procederà agli acquisti di titoli di Stato dell’Eurozona.

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