Tempo di lettura: 7min

Gestore della settimana. Cosa c'è alle origini del conflitto tra Fed e mercati

11/14/2016 | Chen Zhao*

La Fed è rimasta fedele ai suoi modelli di reazione, in un momento in cui il conflitto tra le fasi del ciclo di mercato ed i trend secolari rendono ancora più complessa la gestione delle politiche monetarie.


Continuamente, a partire dal cosiddetto “taper tantrum” del 2013, il conflitto tra le aspettative della Federal Reserve (Fed) e quelle dei mercati finanziari sul livello futuro atteso dei tassi di interesse e quindi anche sulle prospettive di crescita ha rappresentato un fattore fondamentale delle fasi di turbolenza dei mercati a cui abbiamo assistito con regolarità. Se si osserva il percorso dei cosiddetti “dot plots”, che rappresentano le proiezioni sul livello dei tassi di interesse futuri, così come formulate dai membri del Federal Open Market Committee (FOMC), ovvero il direttivo preposto alla definizione della politica monetaria della Federal Reserve, rispetto a quanto previsto invece dal mercato, la discordanza tra i due è evidente.

 

CHART 1

Dal momento che è difficile immaginare una prossima convergenza tra le due visioni, questa situazione continuerà a generare molta volatilità, sui mercati; comprenderne le cause può rappresentare un primo passo per interpretare le azioni della Fed e la conseguente risposta del mercato.

 

Da dove proviene questo contrasto tra le view formulate dall’autorità centrale americana ed i mercati? A nostro avviso le cause sono principalmente tre:

 

  1. Percezione vs. Realtà – La prima disconnessione esiste tra le modalità e i tempi di reazione della Fed rispetto a quella che è la realtà economica. Per le autorità centrali, aumentare l’efficienza di un’economia riducendo il cosiddetto “output gap”, la differenza cioè tra capacità produttiva e produzione effettiva costituisce uno degli obiettivi essenziali e la Fed ne è consapevole. Tuttavia, come riconfermato nel corso del FOMC del 16 marzo 2016, Janet Yellen ha mostrato di riconoscere validità nella relazione espressa dalla curva di Phillips, che prevede come negativamente correlate inflazione e tasso di disoccupazione. Negli ultimi 20-25 anni, a nostro avviso, questa relazione si è rivelata sempre più debole, se non addirittura errata. Infatti, benché negli anni ’70-‘80 si potesse riscontrare una relazione negativa tra le due variabili, questa correlazione si è ridotta di molto già a partire dagli anni ’90, arrivando a perdere di rilevanza se si considera l’appiattimento della curva sull’arco temporale dal 2000 ad oggi (Grafico 2).

CHART 2

 

Una curva di Phillips meno ripida sta ad indicare che un’economia  può crescere in maniera considerevole senza indurre un rialzo dell’inflazione, il che segnala che il potenziale di produzione dell’economia americana ha continuato ad aumentare grazie ad un insieme di fattori, fra cui la globalizzazione, un miglioramento dell’efficienza produttive ed innovazioni tecnologiche. La relazione espressa dalla curva di Phillips sembra essersi addirittura invertita a seguito della crisi finanziaria del 2008 e la perdita permanente di produttività che ne è conseguita ha trascinato al ribasso la crescita nominale di tutti i paesi a livello globale. Facendo riferimento alla vecchia versione della curva di Phillips, la Fed  tenderà a correggere le proprie politiche monetarie espansive troppo presto, scatenando una reazione negativa e di resistenza da parte dei mercati.

 

  1. Cicli di mercato vs. trend secolare – La seconda disconnessione risiede nella divergenza tra il ciclio di mercato dell’economia statunitense e le forze che stanno guidando il trend secolare a livello globale. Da un punto di vista ciclico, l’economia americana sembra muoversi nella giusta direzione, come confermato dalla creazione di nuovi posti di lavoro, dalla crescita dei salari, dal tasso di occupazione e dalle condizioni del mercato immobiliare. Sotto questo punto di vista, un rialzo dei tassi di interesse sembrerebbe giustificabile. Da un punto di vista strutturale, invece, l’economia globale appare ancora intrappolata da forze deflazionistiche, se si considera che la crescita del PIL nominale negli USA si trascina a fatica al 2% - un livello simile a quello vissuto nell’ultima recessione, un livello che avrebbe portato la Fed a tagliare i tassi di riferimento.  Anche la crescita dei salari al 2.4%, considerata buona da molti analisti, rimane sotto il livello pre-crisi, che era intorno al 3.5-4%. Nel frattempo, anche la riduzione degli investimenti (capex) sembra confermarsi purtroppo come un altro trend secolare. L’economia globale sta attraversando quindi una fase fortemente deflazionistica, se si considera che il maxi boom dei consumi negli USA e degli investimenti dalla Cina del decennio scorso hanno invertito il loro corso (Grafico 3).

CHART 3

Ad una riduzione del debito dei consumatori americani e degli investimenti  in Cina si aggiunge una contrazione delle economie dell’Eurozona, indotta anche in questo caso dalla riduzione della domanda globale. Come risultato, i tassi di interesse sono scesi su livelli prossimi allo zero, anche gli scambi commerciali a livello globale si sono ridotti e l’inflazione si mantiene costantemente al di sotto dei target delle banche centrali in quasi tutto il mondo.  Molte economie hanno dovuto far fronte ad una crescita del risparmio ed un eccesso di offerta. Tutte queste condizioni strutturali si oppongono ad una normalizzazione del livello dei tassi di interesse ed i mercati, consci di quella che è una situazione molto fragile, tendono a respingere l’ipotesi di un rialzo negli USA e nel resto del mondo.

 

  1. Politiche monetarie vs. politiche fiscaliuna terza causa di disallineamento è rappresentata dalla divergente impostazione tra politiche monetarie e fiscali, dove alle banche centrali impegnate in programmi di quantitative easing e di sostegno dell’inflazione si contrappongono invece iniziative restrittive da parte dei governi locali in materia fiscale. Il risultato è analogo a quello di una corsa sul tapis roulant; per quanto intenso sia lo sforzo, non vi è un reale movimento in avanti (Grafico 4).

CHART 4

Mentre non vi è dubbio alcuno che gli interventi delle autorità monetarie siano stati straordinariamente espansivi, sembra che non vi sia totale coscienza di quanto politiche fiscali non agevolanti incidano sul rallentamento della ripresa. A nostro avviso, anche questa contraddizione motiva l’avversione dei mercati finanziari nei confronti di una normalizzazione dei tassi di interesse da parte della Fed.

 

Le implicazioni per i mercati:

  • Ignorando o sottovalutando queste tre cause di disallineamento, è probabile che la Fed continui ad avere la tendenza ad agire troppo presto o con eccessiva intensità ed il timore di una reazione inappropriata continuerà a tenere periodicamente sotto scacco i mercati finanziari. Ciò detto, se volessimo ricondurre questo scenario alla teoria dei giochi ed al cosiddetto “dilemma del prigioniero”, in più occasioni abbiamo visto che la Fed è solita fare la prima mossa nello scegliere soluzioni conservative per evitare di compiere errori tanto gravi da innescare una profonda discesa dei mercati. Tuttavia, questi test di tolleranza ad un rialzo dei tassi di interesse cui la Fed sottopone periodicamente i mercati sono destinati a continuare ad accendere fasi di volatilità piuttosto acute.
  • Nonostante una crescita del PIL nominale molto contenuta incida negativamente sulla generazione di utili societari, è altrettanto vero che un livello molto basso dei tassi di interesse tende a gonfiare i prezzi degli asset ed alle condizioni attuali esiste la possibilità concreta che il mercato azionario statunitense divenga fortemente sopravvalutato,  assumendo le caratteristiche tipiche di una bolla speculativa. Per questo motivo è opportuno essere cauti nel cercare valore nel listino USA.
  • Post Brexit il mercato obbligazionario statunitense ha vissuto un rally, cui nel breve periodo potrebbe seguire un lieve calo dei prezzi. Tuttavia, da un punto di vista strutturale e di lungo periodo, gli spread si mantengono su livelli ancora elevati rispetto ai trend storici ed un intervento restrittivo prematuro da parte della Fed potrebbe arrivare addirittura a provocare un’inversione della curva, causando un calo sostanziale dei rendimenti dei bond a lunga scadenza.
  • Se i rendimenti dei bond dei paesi sviluppati si mantengono su livelli intorno allo zero, l’attenzione degli investitori si rivolgerà sempre di più ai mercati emergenti, che offrono ancora yield interessanti; questo trend rende evidente l’appetibilità di questi paesi in un orizzonte di medio-lungo periodo, dal momento che il livello degli spread tra mercati sviluppati ed emergenti tenderà inevitabilmente a convergere.

In conclusione:

Benché le tre cause di disconnessione descritte in precedenza potrebbero  correggersi autonomamente, siamo piuttosto scettici sulle reali probabilità che ciò accada realmente. La Fed è rimasta fedele ai suoi modelli di reazione, in un momento in cui il conflitto tra le fasi del ciclo di mercato ed i trend secolari rendono ancora più complessa la gestione delle politiche monetarie. Se a ciò si aggiunge che un allentamento delle politiche fiscali rimane lontano dall’attuarsi nella maggior parte dei paesi occidentali, è bene che gli investitori siano preparati ad assistere, da qui in avanti, a fasi di volatilità associate al tentativo da parte della Fed di testare la recettività dei mercati ad una normalizzazione del livello dei tassi di riferimento.

 

*Chen Zhao, Co-Director della Ricerca Macro Globale di Brandywine (Gruppo Legg Mason)

Condividi

Seguici sui social

Advisor è la prima piattaforma interamente dedicata alla consulenza patrimoniale e al risparmio gestito con oltre 38.000 professionisti già iscritti


Accedi a funzionalità esclusive e migliora la tua esperienza di navigazione


  • Leggi articoli esclusivi
  • Salva le tue news preferite
  • Partecipa ad eventi esclusivi
  • Sfoglia i magazine in anteprima

Iscriviti oggi!

Hai già un profilo? Accedi qui

Cerchi qualcosa in particolare?