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Investimenti in arte: con la Finanziaria 2018 persa una grande occasione

12/6/2017 | Stefano Massarotto - Facchini Rossi Soci

In una delle prime versioni era stata inserita una disposizione che avrebbe duramente compromesso la fiscalità delle opere d’arte, poi stralciata. Ma si è persa una buona occasione per distinguere gli speculatori dai collezionisti


In una delle prime versioni della Manovra Finanziaria 2018 era stata inserita una disposizione che avrebbe duramente compromesso la fiscalità delle opere d’arte. Tale norma è stata poi fortunatamente stralciata, ma si è persa una buona occasione per fare chiarezza in un settore caratterizzato da confusione ed incertezza.

Secondo la disciplina in vigore, infatti, ai fini del corretto inquadramento fiscale della cessione di un’opera d’arte, è necessario distinguere la figura del “collezionista” da quella del “mercante d’arte”, il quale investe professionalmente in oggetti d’arte con lo scopo primario di trarne profitto.

Ai fini delle imposte sui redditi, ad oggi, i proventi derivanti dalla vendita di oggetti d’arte o da collezione potrebbero rientrare nella categoria residuale dei “redditi diversi”, in quanto provenienti da “attività commerciali occasionali”. I confini incerti di tale nozione hanno sempre sollevato numerosi dubbi, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa l’ambito applicativo di tale disposizione in un complesso settore come quello del collezionismo, per di più in costante crescita. Pertanto, un intervento chiarificatore da parte del Legislatore sarebbe stato favorevolmente accolto dagli operatori del settore e dai professionisti.

Tuttavia, la bozza della norma di natura “interpretativa”, nonché dell’emendamento proposto al Decreto collegato (anch’esso poi ritirato) delineava un quadro di tassazione indiscriminato delle vendite delle opere d’arte (era prevista solo una soglia di esenzione fino a 10.000 euro), includendo persino i beni acquisiti per successione o donazione, diversamente da quanto fino ad ora sostenuto anche dall’Agenzia delle entrate. Data la natura “interpretativa” della disposizione, anche dal punto di vista sanzionatorio, sarebbero emerse rilevanti problematiche attuative. Unica nota positiva riguardava la proposta di ridurre l’aliquota Iva dal 10% al 5% per rendere più competitivo il mercato italiano anche a livello europeo e internazionale.

Pare evidente che, un intervento legislativo di questo tenore non avrebbe fornito quei chiarimenti tanto invocati da tutte le parti coinvolte circa i vari aspetti controversi, bensì avrebbe incrementato le numerose incertezze che si sono moltiplicate in materia nel corso degli anni.

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