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Cina vs FED, non chiamatela guerra valutaria

8/19/2015 | Eric Chaney - Chief Economist del Gruppo AXA, Head of Research di AXA IM

Il cambiamento della politica dei cambi in Cina avrà un impatto anche sulle decisioni di politica monetaria della Fed.


La PBoC (People’s Bank of China) ha colto i mercati di sorpresa quando ha aggiustato il tasso ufficiale del CNY in basso di 1,9% vis-à-vis il USD, ed annunciato che la sua determinazione sarà ora più vicina alla chiusura del mercato. La conseguenza è stata un ulteriore abbassamento del CNY, ed una svalutazione tra il 4% ed il 10% ci sembra ora probabile, assieme ad un aumento della volatilità. Il momento e la modalità di questa modifica della politica sui cambi della Cina sono stati una sorpresa – un ampliamento della banda d’oscillazione del cambio è visto come uno strumento per dare un po’ di ossigeno ai mercati. 

 

Sono state alimentate incertezze sulla futura politica dei cambi cinese così come sulla solidità dell’economia e dell’export del Paese. Anche se questo è un passo verso una politica dei cambi meno rigida, rimane vero il fatto che la Cina sta solo cambiando la modalità con cui la sua valuta è ancorata al dollaro, e non ha messo in discussione il principio stesso. I flussi di capitali da e verso l’estero sono ancora molto controllati, ed il mercato dei capitali domestico è ben lungi dall’essere abbastanza robusto da poter sostenere shock esterni (come visto dal recente crollo del mercato azionario); una valuta con un cambio veramente aperto rimane una possibilità solo in un futuro remoto.

 

…ma ha senso economicamente
Le reazioni del mercato di oggi sembrano indicare che il RMB/CNY è sopravvalutato, nonostante le lamentele di Capitol Hill. Sebbene i mercati tendano a concentrarsi sul semplice tasso di cambio RMB/USD, che è rimasto generalmente stabile dal 2012, il parametro chiave è il tasso di cambio reale (corretto per i trend inflazionistici) con un paniere di valute dei principali paesi con cui la Cina ha scambi commerciali. Guardando questa seconda metrica, il RMB si è apprezzato del 30% dal 2010, circa il 15% solo da metà dello scorso anno. A confronto, il Won coreano è salito ‘solo’ del 13%, il Dollaro americano del 10% mentre il Real brasiliano e le Rupie indiane sono scese del 22% e del 11% rispettivamente. La debolezza dell’export cinese (in calo del 2% da inizio anno, a confronto con l’anno scorso) ed il permanere di un’inflazione particolarmente bassa (1,3% in media da inizio anno) sembrano indicare un mix di domanda estera debole, scarsa competitività sulle esportazioni e rischi deflazionistici, nonostante una politica monetaria decisamente espansiva. Dato che la PBoC potrebbe ora sfruttare questo cambiamento nella determinazione del tasso di cambio per svalutare ulteriormente la moneta – se il sentiment del mercato rimanesse negativo – una ulteriore svalutazione del RMB ci appare possibile, se non addirittura probabile.

 

Non scommettete su una svalutazione prolungata ed ingente
Le autorità cinesi si muoveranno con cautela; il rischio da controllare è la possibilità che permangano nel lungo aspettative di svalutazione del cambio, provocando 1) deflussi di capitali, 2) contagio a altri mercato (si vedano le A shares) e 3) una crisi di fiducia che potrebbe portare a massicce vendite di asset in RMB. Al momento, tutti i mercati locali – monetari, obbligazionari, azionari – sembrano stabili, ma i mercati esteri stanno registrando ingenti sell-off. Le proiezioni sulla crescita in Cina rimangono positive nel medio-lungo termine. Anche se la forza lavoro non è più in espansione, l’economia cinese ha ancora molta strada da percorrere in fatto di efficienza, capitale investito per lavoratore e, di conseguenza, produttività. Un maggior utilizzo a livello globale dello Yuan, sostenuto da una internazionalizzazione del RMB, potrebbero inoltre aiutare a sostenere il valore della valuta negli anni futuri. Crediamo sia quindi importante tenere ben distinta la view negativa nel breve periodo – causata da bruschi apprezzamenti e sentiment di mercato negativo – da quella più positiva nel medio termine, visto il processo in corso di liberalizzazione del cambio. 

 

La Fed non può ignorare le decisioni di Pechino: un rialzo dei tassi a Settembre sembra ora improbabile
Il cambiamento della politica dei cambi in Cina avrà un impatto anche sulle decisioni di politica monetaria della Fed. Dal meeting del FOMC di Giugno, quando Janet Yellen ha fatto intuire un rialzo dei tassi nel 2015, affermando che qualsiasi operazione di questo tipo sarebbe dipesa dai dati economici ed avrebbe richiesto una ‘ragionevole certezza’ di un aumento dell’inflazione, gli sviluppi sono stati largamente negativi: calo del prezzo del petrolio (prezzo del WTI giù del 28% dal meeting di giugno). I dati sulla crescita dei salari hanno deluso nel Q2, con ricadute non solo sull’outlook inflazionistico nel medio periodo, ma anche sulle condizioni generali del mercato del lavoro US. Prima di questa settimana, il dollaro pesato per gli scambi era già salito del 3% da giugno. Questi elementi già suggerivano un deterioramento delle aspettative sull’inflazione US, ed un rialzo dei tassi a Settembre al tempo già sembrava meno probabile.

La possibilità di un significativo deprezzamento dello Yuan ed una accelerazione del declino dei prezzi delle commodities ci porta ora a credere che sia più probabile un rialzo dei tassi US a Dicembre. La Cina rappresenta circa il 20% degli scambi commerciali US, ma con il deprezzamento in altre economie emergenti a seguito dell’indebolimento dello yuan, l’effetto netto ad esempio di un deprezzamento del 10% dello Yuan potrebbe essere un apprezzamento del USD (pesato per gli scambi) del 2,5%. Sarebbe equivalente all’incirca ad un rialzo dei tassi del 0,25% da parte della Fed in termini di impatto sull’inflazione CPI. Continuiamo a credere che la Fed alzerà i tassi quest’anno, in linea con i “progressi incrementali” che il presidente Lockhart ha menzionato precedentemente nel mese. In aggiunta, prevediamo una crescita del PIL più consistente nella seconda metà dell’anno insieme ad un miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro, calmando i timori della Fed – assumendo una stabilizzazione negli altri mercati nel corso del trimestre. Tuttavia è inevitabile che il rischio di un rialzo posticipato dei tassi solo nel 2016 sia aumentato.

 

Attenzione agli effetti secondari, ma non chiamatele guerre valutarie!
Dopo la consistente svalutazione dello Yen in Giappone nel 2012, molti investitori avevano temuto che la Cina avrebbe percorso la stessa strada. Al tempo, abbiamo creduto che tali timori fossero eccessivi ed ingiustificati. Con il beneficio del senno di poi e visto il rischio di deflazione in Cina, definirli eccessivi è stato corretto, ingiustificati no. In aggiunta ad un considerevole declino già in corso, è probabile che la possibilità di una ulteriore svalutazione dello yuan porti ad ulteriori correzioni delle valute emergenti, ma preferiamo astenerci dal parlare di ‘guerre valutarie’: l’elemento principale che ha portato alla svalutazione in Cina è stato l’apprezzamento del Dollaro US, erroneamente riflesso anche dall’economia cinese. Quando il Brasile si è lamentato parlando di guerre valutarie, è stato a causa del QE US e del deprezzamento del Dollaro. Oggi, la sfida per i mercati emergenti è l’apprezzamento del USD. Il complicato rapporto tra Pechino e Washington potrà forse posporre il momento della verità per i mercati emergenti, ma non potrà evitare che sopraggiunga. 

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