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Robeco, Brexit: il difficile nodo del commercio

12/15/2017 | Greta Bisello

Theresa May ha intrapreso il lungo cammino di transizione per traghettare il Regno Unito fuori dall'Unione europea. Una delle criticità è quella degli accordi commerciali, due le proposte di Léon Cornelissen, capo economista di Robeco, per affrontare la spinosa questione.


Nell’agenda dei leader europei, che si incontrano a Bruxelles per il Consiglio, una delle priorità rimane la Brexit: evitare un divorzio duro e cercare di tutelare il mercato unico stipulando un accordo vantaggioso con il Regno Unito. Oltre marzo 2019, il Paese non avrà più capacità decisionale riguardo alla legislazione europea.  

 

Secondo Léon Cornelissen, capo economista di Robeco, il fatto che il Regno Unito continuerà a giocare con le regole europee costituisce un bene nel medio termine, dall’altra parte però non si ha ancora una visione chiara su lungo periodo.

 

Al netto dei molteplici cambiamenti in atto, nella composizione a 27, il Regno Unito potrà valutare due soluzioni per fronteggiare il delicato nodo commerciale: da una parte il modello canadese e dall’altra quello norvegese.

Il primo riguarda principalmente il commercio di beni e non i servizi, elemento già discordante rispetto alle caratteristiche inglesi. Il vantaggio di questa opzione sarebbe la libera circolazione di persone (anche se bisogna tener conto della criticità lungo la frontiera irlandese). Non farebbe parte del mercato unico e ciò implicherebbe non dover pagare alcunché all’Unione.

Il secondo invece, quello norvegese, prevede di contro che il Regno Unito rimanga nel mercato unico, evitando qualsivoglia tipo di frizione con l’Europa, oneri e onori, in tal caso bisognerebbe però sottostare anche alle regole comunitarie.

L’attuale governo, prosegue la sua analisi Cornelissen, prediligerebbe la soluzione canadese: libera circolazione e pagamento di contributi all’Unione. Allo stesso tempo però a pagarne il prezzo più alto sarebbero Londra e l’intera economia inglese.

Il secondo modello, sarebbe migliore per entrambi gli attori, Unione e Regno Unito, anche se comporterebbe non poche difficoltà politiche poiché implicherebbe una sorta di sudditanza: rimanere nell’Unione senza avere alcun potere di indirizzarne le scelte.

 

Secondo un sondaggio di Rand Corporation, una Brexit senza alcun accordo commerciale costerebbe all’economia del Regno 105 miliardi di Sterline in dieci anni, con la perdita del 4,7% di Pil, e innescherebbe anni di recessione.

Dall’altra parte però sostare per più di due anni nell’incertezza e nelle lungaggini di un accordo provvisorio non gioverebbe lo stesso al Paese.

 

Se si volesse fissare una data ideale per la fuoriuscita questa potrebbe essere dicembre 2020, in concomitanza con la chiusura dell’attuale budget pluriennale europeo (ma anche questo giorno non pare sufficientemente lontano per risolvere tutte le criticità).

Questa fase di transizione appare forse più ardua rispetto a quanto preventivato e la posta in gioco soprattutto per il Regno Unito è davvero alta, con Theresa May che si trova a mediare lungo due fronti, uno intero al Paese, l’altro esterno con l’Unione.

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