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USA-Cina, se la guerra dei dazi diventasse finanziaria

10/9/2019

Stanno iniziando a circolare notizie circa la possibilità che l'amministrazione Trump stia pianificando delle misure a lungo termine per operare un vero e proprio isolamento ai danni della Cina. L'analisi di UBP


Non più dazi ma Borsa. La possibilità di un "mini" accordo tra Stati Uniti e Cina in materia commerciale sta svanendo con la diffusione della notizia di una "guerra finanziaria".  L'amministrazione Trump starebbe pianificando di limitare lo sviluppo finanziario della potenza cinese in tre diversi modi: da una parte attraverso il delisting degli American Depositary Receipt (ADR) dalle borse USA, contenendo l’esposizione dei portafogli USA ad asset cinesi (azioni e bond) attraverso i fondi pensioni statali e limitando la presenza di società cinesi sugli indici azionari globali a gestione statunitense.

 Anthony Chan, chief asia investment strategist di Union Bancaire Privée spiega che: "L'impatto potenziale sullo sviluppo finanziario della Cina potrebbe essere profondo se le misure di cui sopra fossero d’improvviso pienamente attuate. A fine settembre 2019, le azioni ADR cinesi ammontavano a 1,2mila miliardi di dollari, pari al 7% della capitalizzazione azionaria statunitense. Secondo una ricerca di J. P. Morgan, gli investitori statunitensi rappresentano in media il 38% del mercato. L'esposizione degli investitori statunitensi alle società tecnologiche e di comunicazione informatica è ancora più elevata". 

Proseguendo nell'analisi si vede che "dal punto di vista degli Stati Uniti, gli investimenti di portafoglio in asset cinesi (sia nella Cina continentale che sui mercati di Hong Kong) sono rimasti modesti. L'investimento ammonta a circa 375 miliardi di dollari in azioni (4,2% delle partecipazioni azionarie offshore degli Stati Uniti) e a soli 20 miliardi di dollari in obbligazioni (0,6% della loro esposizione internazionale). Tuttavia, il fondo pensione governativo americano è il più grande al mondo, con 15,6 mila miliardi di dollari di asset in gestione nel 2018. I dettagli sull’allocazione non sono disponibili, ma una modesta esposizione alla Cina dell’1-2% equivale a 150-300 miliardi di dollari, il che ha un peso sui mercati cinesi (per esempio, è comparabile alla capitalizzazione corretta per il flottante dell’MSCI Cina pari a circa 1,7 mila miliardi di dollari)" commenta Chan.

 

Secondo UBP comunque queste misure sembrano considerazioni strategiche a lungo termine e parte della strategia di isolamento degli Stati Uniti nei confronti della Cina, piuttosto che misure di rottura imminente.

"La misura più efficace per gli USA sarebbe in realtà di rendere più stringenti gli standard e le normative sulle quotazioni cinesi in futuro, piuttosto che impedire improvvisamente a un Paese di quotarsi in borsa. A meno che le tensioni non si acutizzino e non siano soddisfatte le condizioni per cui gli Stati Uniti siano legittimati a dichiarare un'emergenza nazionale (ed evocare l'International Emergency Economic Power Act, IEEPA), le restrizioni finanziarie dirette alla Cina e il divieto di accesso della stessa ai mercati finanziari statunitensi rappresentano misure estreme" analizza l'esperto.

 

Non è da escludere che questa potrebbe essere una tattica negoziale di Trump per "alzare la posta in gioco e aumentare la pressione sulla Cina. Nel complesso, ci aspettiamo che l’azionario resti sotto pressione e che si muova lateralmente nelle prossime settimane, a meno che non emergano prospettive più costruttive sul fronte commerciale con ulteriori concessioni da entrambe le parti" conclude Chan.

 

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