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Giappone, un’inflazione sostenuta più generalizzata è improbabile

12/13/2021 | Daniele Riosa

Dan Carter e Mitesh Patel, fund managers di Jupiter AM, spiegano che “ci sembra giusto essere sottopesati su molti di quei player che fanno un maggior uso di fattori di produzione sempre più costosi e sui produttori di beni con minor differenziazione”


“Dalla fine di ottobre i prezzi di alcune diverse catene di ristorazione giapponesi stanno aumentando così come quelli di alcuni generi alimentari. E’ il caso di realtà come Yoshinoya, Nestlè e Calbee”. Dan Carter (in foto) e Mitesh Patel, fund managers di Jupiter AM, sottolineano che “questa situazione, sebbene riferita al Giappone, racconta una storia globale di offerta ridotta e domanda in aumento. E mentre le famiglie di tutto il mondo sono messe alle strette dall'aumento dei prezzi, da nessuna parte questo sentimento è più estraneo che in Giappone, dove l'inflazione non è che un pallido ricordo per la maggior parte delle persone”.

Ma questo è l'inizio di un periodo generalmente inflazionistico per il Giappone, o solo uno spasmo a livello settoriale? E quali sono le implicazioni per gli investitori in entrambi i casi? Gli economisti rispondono che “la situazione attuale, nel complesso, vede un’inflazione ancora debole, ma ciò è dovuto al fatto che i prezzi vengono contenuti da grandi riduzioni delle tariffe di telefonia mobile, un fenomeno che molto probabilmente non continuerà all’infinito. Alcuni sondaggi mostrano che le famiglie si aspettano maggiori pressioni inflazionistiche per il futuro, va notato che tendono a temere sempre il peggio e, di solito, hanno torto. Il mese scorso il governatore della BoJ, Kuroda, ha espresso la sua delusione per il fatto che l’inflazione non fosse più alta, incolpando il settore societario di aver assorbito costi più elevati senza trasferirli, affermando: ‘Le imprese non sono state in grado di perdere l'abitudine che hanno acquisito durante il periodo deflazionistico’. Pensa ovviamente che Yoshinoya, Nestlè e Calbee siano eccezioni piuttosto che la nuova regola inflazionistica”.

Di conseguenza, “i mercati si aspettano che i rendimenti dei titoli di Stato giapponesi aumentino di poco, mentre è previsto un aumento dei tassi in altri Paesi sviluppati. Ciò che ne risulta è che i rendimenti reali, aggiustati per l’inflazione, potrebbero diminuire in Giappone rispetto ad altri Paesi, prospettiva che ha portato gli investitori più concentrati sul contesto macro a vendere yen. Un motivo meno astratto per la recente debolezza dello yen è che man mano che i prezzi dei prodotti importati, come il cibo e le materie prime, aumentano, è necessario convertire più yen in valute straniere per pagarli, e ciò ne comporta un deprezzamento. Evitiamo sempre di fare previsioni macroeconomiche di breve periodo e di investire basandoci su di esse. Tuttavia, in questo contesto caratterizzato un aumento dei costi di produzione e dal discutibile trasferimento sui prezzi al consumo, sembra prudente concentrarsi sulle società che possono farlo meglio. Non si dovrebbe sottovalutare l’importanza di veri vantaggi competitivi e del potere di determinazione dei prezzi; perciò, ci sembra giusto essere sottopesati su molti di quei player che fanno un maggior uso di fattori di produzione sempre più costosi e sui produttori di beni con minor differenziazione”.

D’altro canto, gli analisti ritengono “opportuno investire su realtà maggiormente esposte a fattori macro di lungo termine come l’invecchiamento della popolazione, la debolezza dei consumi delle famiglie e i prezzi piatti, se non negativi. È ora di ‘rivedere i nostri precedenti’? Forse sì, ma probabilmente no. L’invecchiamento della popolazione giapponese è ancora un fattore estremamente importante, man mano che le persone invecchiano, consumano di meno. Sebbene ciò non garantisce l’assenza di inflazione, elimina quello che gli economisti classici chiamano ‘la velocità di circolazione della moneta’, componente chiave (a loro avviso) dell’equazione inflazionistica”.

Altro fattore importante sono i salari. “Il cambiamento demografico in corso in Giappone ha trasformato la manodopera da una risorsa abbondante a una esigua. Il vero grattacapo qui consiste nel capire perché gli aumenti salariali siano stati così miseri, l’inflazione degli stipendi di base è stata sostanzialmente al di sotto dell’1% per quasi tutti gli ultimi vent’anni, nonostante la carenza di manodopera dell’ultimo periodo. Uno dei motivi principali è che i sindacati giapponesi non sono stati capaci di ottenere il tipo di aumento che i lavoratori meritano, il che, a sua volta, potrebbe essere dovuto alla paura che gli impiegati regolari, sempre più costosi, potessero essere sostituiti da lavoratori non regolari – part-time o con contratti a tempo determinato".

"Questa preoccupazione - proseguono gli esperti - non è interamente priva di fondamento. È possibile che i sindacati si facciano valere spontaneamente, o che l’ingresso sul mercato di lavoratori non regolari, spinto da una maggiore partecipazione femminile, si riduca, o persino che le nuove politiche del primo ministro Kishida per incentivare gli aumenti salariali attraverso agevolazioni fiscali portino finalmente a un'inflazione salariale significativa, che potrebbe avere effetti sull’indice dei prezzi al consumo. Manteniamo un atteggiamento aperto, ma queste possibilità sembrano più speranze che aspettative. Nel complesso è chiaro che le pressioni inflazionistiche mondiali possono essere viste anche in Giappone. Sarebbe strano se fossero completamente assenti. Per come stanno le cose, ciò è principalmente dovuto a un problema di costi, con un trasferimento sui prezzi ancora estremamente frammentata. I consumatori se ne renderanno conto, e anzi se lo aspettano già, ma ciò non significa che anche gli utili non verranno schiacciati. Gli investitori price taker devono prestare attenzione, guarderemo ai price makers ovunque sia possibile. La situazione diventa sempre più incerta andando avanti".

"Certamente - concludono Dan Carter e Mitesh Patel - è possibile un’inflazione sostenuta più generalizzata in Giappone, ma data l'inerzia profondamente radicata dei prezzi, i venti contrari legati alla demografia e alla confusione nel mercato del lavoro, sembra più probabile che questa ipotesi non si verifichi”.

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