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Brandywine (Legg Mason): ottimisti ma cauti

2/27/2017

La società ritiene finiti alcuni trend secolari, ma alcuni elementi invitano a un atteggiamento prudente


L’impressione di Stephen Smith & David Hoffman, managing directors e pm di Brandywine Global, affiliata del gruppo Legg Mason, è che il terzo trimestre dello scorso anno sia stato il punto minimo della lunga fase di rendimenti a zero dei bond governativi dei paesi sviluppati.

 

Nel sell-off innescatosi nell'ultimo trimestre del 2016 non c'è soltanto l'ottimismo per l'agenda reflattiva del nuovo Presidente Trump, ma anche una variazione a livello di alcuni trend secolari, come la fine della compressione del debito e dei consumi dei cittadini americani grazie ad una ripresa dei redditi domestici. Stiamo assistendo inoltre a un cambio di rotta delle politiche economiche: Cina e USA sembrano intenzionate ad attuare interventi fiscali espansivi che toglieranno dalle banche centrali il peso di sostenere, da sole, la crescita globale - com’è stato invece negli ultimi 8 anni. Con una crescita reale dei salari tra l'1.5% e il 2%, la crescita del PIL nominale negli USA toccherebbe infatti per la prima volta da sette anni quota 4.5-5%. Infine, l'ondata dei populismi sta segnando la fine della globalizzazione ed ha riportato a galla un protezionismo che andrà con tutta probabilità a cambiare gli equilibri a livello globale.

 

Rimangono tuttavia alcuni aspetti che rendono difficile pensare che l'economia globale sia prossima ad una forte accelerazione. Tra questi, le difficoltà che potrebbero emergere nell'implementazione delle iniziative di Trump, gli interrogativi sulla crescita cinese, a fronte di iniziative in parte espansive della autorità centrali, in parte meno - fra queste ultime citiamo ad esempio gli interventi a contrasto del deprezzamento della valuta. Il rialzo dei rendimenti e quindi del costo dei mutui, negli USA, potrebbe scoraggiare la domanda di nuove abitazioni ed un dollaro statunitense forte non supporta le esportazioni. Analoghe perplessità interessano l'Europa, dove alcuni indicatori di riferimento segnalano un possibile esaurimento prematuro della recente ripresa della crescita.

 

Un'altra variabile da osservare con attenzione è quella rappresentata dal rafforzamento del dollaro americano. Con riferimento all'euro, i segnali di una ripresa della crescita e delle attività commerciali, insieme al lento risolversi degli stress bancari ed alle prospettive di un ridimensionamento delle politiche espansive della BCE sono fattori che si pongono a favore della valuta. Sulla stabilità dell'euro grava però il peso dell'esito delle elezioni che coinvolgeranno quest'anno alcuni paesi dell'Eurozona, Francia in primis, con la possibilità di un acuirsi delle spinte isolazioniste.

In Giappone, le politiche di Abe stanno iniziando finalmente a dare risultati positivi, come testimoniato dai dati di produzione e vendita al dettaglio, dagli indici PMI e da un miglioramento della bilancia commerciale sostenuto soprattutto da una forte svalutazione dello Yen, che sta infatti tornando a rappresentare una possibile opportunità alle valutazioni attuali.

Poiché un dollaro forte si pone tuttavia in contrasto con le politiche di rilancio delle attività manifatturiere promosse da Trump, la nuova amministrazione potrebbe esercitare pressioni al fine di svalutare il biglietto verde.

Di contro, le valute di molti mercati emergenti sono prezzate su livelli veramente convenienti rispetto al loro valore intrinseco, in un momento in cui le loro bilance dei pagamenti hanno raggiunto equilibri più sani, anche grazie all'aumento dei prezzi delle commodity di cui molti di questi paesi sono esportatori. Nonostante le restrizioni al commercio e le tasse sulle importazioni prefigurate da Trump rappresentino una potenziale minaccia, è improbabile che Trump voglia spingersi tanto in là da provocare un cambiamento sostanziale delle dinamiche commerciali globali.

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