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8/23/2019 | Daniele Riosa
Tad Rivelle, chief investment officer Fixed Income di TCW, analizza i costi nascosti delle politiche stimolative delle banche centrali. Per l’economista “i tassi di interesse sono innanzitutto dei prezzi. Quando la Fed riduce artificialmente il prezzo del credito, l’equilibrio naturale tra le esigenze di chi prende e di chi dà in prestito viene turbato. Forse è per questo che l’etichetta preferita dai banchieri centrali per descrivere le politiche sui tassi è ‘stimolativo’. Nessuno può lamentarsi di una politica ‘stimolativa’! Ma si può dire che i risultati di tutti siano equamente ‘stimolati’?”
L’esperto risponde che “forse, quando la Fed si accorge che la produzione di credito sta rallentando in maniera organica, dovrebbe considerare la possibilità che il rallentamento sia per una buona ragione. Tuttavia, piuttosto che lasciare la decisione ai veri esperti, i banchieri centrali reputano ogni rallentamento del credito come problematico”.
Occorre chiedersi: il credito in questo ciclo è stato usato in modo produttivo? “In base ai ricavi generati, misurati attraverso i dati sul Pil, non mi sembra affatto! Evidentemente, troppo credito è stato utilizzato per ‘stimolare’ i prezzi degli asset. Purtroppo, se vi fosse una correzione di tali prezzi, una grande quantità di debito dovrebbe essere svalutato e ciò che era ritenuto ‘stimolo’ verrà riclassificato come cattivo investimento. Né le famiglie né le imprese possono permettersi di continuare all’infinito ad aumentare il rapporto debito/reddito, e questo vale anche per la società nel complesso”.
“Uno stimolo sempre maggiore, vale a dire una leva sempre maggiore, è una strada che non porta da nessuna parte. Gli investitori farebbero bene a ricordarsi la saggezza contadina della legge di Stein: se qualcosa non può andare avanti per sempre, non lo farà”, conclude Rivelle.
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