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Rivoluzione “intermediari”

3/27/2021 | Giuseppe G. Santorsola*

Cresce l’attenzione verso l’intermediazione “leggera”, nel segmento del risparmio gestito e degli organismi di investimento collettivo del risparmio


All’approssimarsi dell’inizio del 45esimo anno di insegnamento, rifletto sulla crescente convergenza di temi delle due materie di mia competenza: la gestione degli investimenti (Asset Management) e i finanziamenti aziendali (Corporate & Investment Banking). 

Traducendo per quanto di interesse al lettore, lo scenario evidenzia la crescita di rapporti più diretti nel raccordo fra i detentori del risparmio e della ricchezza e i soggetti utilizzatori dei fondi disponibili. L’intermediazione “pesante” delle banche tradizionali mantiene uno stock molto rilevante, eredità del passato, ma risulta meno incidente nel finanziamento delle nuove iniziative imprenditoriali. La finanza “diretta” è invero ancora modesta nella sua dimensione, ma attiva nell’innovazione. Diversamente, cresce l’attenzione verso l’intermediazione “leggera”, nel segmento del risparmio gestito e degli organismi di investimento collettivo del risparmio: fondi chiusi, private equity, Eltif, private debt, Eusef. Nell’ultimo quinquennio essi hanno acquisito una regolamentazione a livello comunitario che ne rende definito il perimetro operativo. Nel contesto italiano, ha operato anche la normativa sui PIR e, a partire dal 2021, sui PIR alternativi, una sintesi di quanto qui ricordato.

Le premesse per un’intensa attività di intermediazione “leggera” sono idonee. Gli attori ritrovano un quadro normativo certo che consente la proposizione di strumenti di investimento per la clientela la cui profilazione rientra nell’ambito individuato dalla disciplina. Un universo limitato rispetto alla clientela retail, ma considerato più stabile, nelle sue scelte, più paziente nella capacità di attendere gli esiti dell’investimento, più adatto alla combinazione rischio/rendimento che necessariamente è richiesta in una fase ciclica così delicata, anomala ed incerta.

La combinazione fra disciplina comunitaria e normativa sui PIR genera opportunità di finanziamento dell’economia reale, il sistema che ha più sofferto negli anni recenti per la tendenza delle banche tradizionali ad investire in titoli del debito pubblico e/o in operazioni di finanza strutturata non direttamente finalizzate verso le imprese. 

SGR, SIM e altri intermediari operanti ai sensi dell’articolo 106 risultano molto attivi nella proposizione di strumenti “fondi-veicoli” riconducibili alle normative citate, spesso combinandole fra loro. Un fondo alternativo o un Eltif propongono strategie di investimento indirizzate verso private equity e debt, indirizzandosi verso aziende non quotate o di nuova costituzione o dedicate a segmenti con adeguate attese di sviluppo. La dimensione di ciascuna iniziativa è opportunamente limitata per donare elasticità alla gestione e per impedire pericolose ingessature degli attivi, fattore che si aggiungerebbe negativamente ai tempi di attesa del ritorno dell’investimento. 

A corredo del quadro delineato si aggiungono i prestiti erogati da società FinTech o da piattaforme dei colossi tecnologici, che costituiscono oggi area di interesse per gli attori bancari tradizionali. La digitalizzazione dell’attività di intermediazione costituisce pertanto la frontiera ulteriore per il cambiamento; basta ricordare come, negli anni ’80, il valore degli intermediari fosse calcolato come un multiplo del numero degli sportelli, fattore che oggi costituisce quasi un badwill.

Resta un fattore critico da risolvere: l’asimmetria dei flussi finanziari: troppi depositi e troppo debito pubblico negli attivi delle banche ordinarie, troppo debito a breve termine nei bilanci delle imprese e permanenti difficoltà nel canalizzare flussi verso i nuovi intermediari.

 

Professore Ordinario di Asset Management, Corporate Finance e Corporate & Investment Banking Università Parthenope - Napoli

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