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Sostenibilità, la sfida delle “bombe di carbonio”

8/17/2022

Un recente studio rivela che ci sono 425 grandi progetti di estrazione di combustibili fossili, in via di realizzazione, che costituiranno la maggior parte della crescita delle nuove emissioni di CO2. Come fermarli?


In contesti complessi come quello attuale, politica e sostenibilità fanno fatica a percorrere un sentiero comune. Una vittima degli sforzi europei per ridurre la dipendenza dal gas naturale russo in conseguenza dell’invasione dell’Ucraina sono stati gli impegni climatici a breve termine, che sono stati abbandonati con l'abolizione delle restrizioni sulla combustione del carbone in paesi come Germania, Austria e Paesi Bassi.

 

Tuttavia, all’orizzonte si profila uno scenario che imporrà necessariamente che la geopolitica faccia sentire il suo peso.  In questo ambito, Michael Lewis, head of research ESG di DWS, cita uno studio accademico recente dal titolo “Carbon Bombs” - Mapping key fossil fuel projects, che rivela la posizione dei più grandi progetti di combustibili fossili al mondo. Queste 425 "bombe di carbonio", come le chiamano gli autori dello studio, sono i siti di estrazione di petrolio, gas e carbone già in funzione o proposti a livello globale, dove le emissioni potenziali di CO2 superano un gigatone (Gt) - se le riserve della miniera di carbone o del giacimento di petrolio in questione fossero completamente estratte e bruciate. Complessivamente, le emissioni potenziali di CO2 di questi progetti sono stimate in circa 1.182 Gigatoni di CO2, ovvero il doppio di quelle consentite nello scenario di riscaldamento di 1,5°C. Con la proliferazione degli impegni net zero a livello nazionale e aziendale, si chiede Lewis, quali di questi progetti potrebbero essere fermati e come?

 

È qui che secondo l’esperto deve entrare in gioco la geopolitica. “È sorprendente che 10 Paesi con più di 10 bombe di carbonio rappresentino i tre quarti dell'universo potenziale delle emissioni. Del totale, circa il 40% non ha ancora iniziato l'estrazione”. Una tale concentrazione di progetti rappresenta l'occasione ideale per un forte impegno da parte degli investitori, “che potrebbero avviare un dibattito serio sulla riduzione della spesa per i combustibili fossili, sull'accelerazione della transizione a basse emissioni di carbonio o semplicemente sulla restituzione del capitale agli azionisti. Tuttavia, quasi due terzi di questi progetti si trovano in Cina, Russia, Medio Oriente e Nord Africa e sono in genere gestiti da società statali. I progetti delle società di combustibili fossili quotate in borsa che operano negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in India rappresentano non più di un quinto delle potenziali emissioni di CO2”.

 

 Una strada più promettente, secondo Lewis, sembra essere un innalzamento dei prezzi del carbonio, magari combinato con dei meccanismi di aggiustamento alle frontiere. Come proposto l’anno scorso dal FMI, “questo potrebbe avvenire sotto forma di un prezzo minimo del carbonio per i principali Paesi emettitori, in particolare nei mercati emergenti. Quasi 100 Paesi, che coprono il 58% delle emissioni globali, hanno già dichiarato che i sistemi di scambio di quote di carbonio saranno un pilastro fondamentale delle politiche climatiche nazionali "net zero".

 

“Un consenso così ampio - sottolinea Lewis - dovrebbe essere utile, anche per esercitare una pressione politica internazionale sui ritardatari". Affinché ciò sia efficace e credibile, tuttavia, è necessario che anche i Paesi occidentali che hanno emesso in passato si impegnino a fare meglio, anche in tempi di crisi geopolitica. 

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