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Il trust alla prova voluntary disclosure

4/15/2015 | Stefano Massarotto – socio Facchini Rossi Soci

In caso di trust esteri occorre attentamente analizzare le modalità di funzionamento dell’istituto per verificare se il trust sia un soggetto fittiziamente interposto.


In caso di trust esteri occorre attentamente analizzare le modalità di funzionamento dell’istituto per verificare se il trust sia un soggetto fittiziamente interposto. Ad affermarlo è la recente circolare n. 10/E del 2015 dell’Agenzia delle Entrate che offre chiarimenti sulla Voluntary Disclosure.

 

Nella circolare si precisa infatti che il trust “viene considerato interposto, in buona sostanza, ogni volta che le attività facenti parte del patrimonio del trust continuano ad essere a disposizione del disponente oppure rientrano nella disponibilità del beneficiario”.

 

Risulta quindi essenziale condurre, ai fini di una corretta qualificazione dell’istituto, un’analisi fattuale e documentale, che coinvolga tutti gli attori (disponente, protector, advisor e beneficiari) per verificare in primis, il superamento dei requisiti minimi richiesti dalla normativa di settore (i.e. la Convenzione de l’Aja e la legge regolatrice straniera) ed in secondo luogo per valutare la compatibilità (anche in termini di meritevolezza delle finalità dello stesso) con l’intero sistema giuridico privatistico italiano.

 

Sono molteplici le casistiche di trust che potrebbero cadere nelle maglie dell’interposizione. E’ il caso ad esempio dei nominee agreement, aventi la mera denominazione di trust o dei bare trust, in cui i beneficiari siano già stati definitivamente determinati (“absolutely entitled” ovvero con diritto di pretendere i beni del trust e di far cessare lo stesso - cfr. clausola di Saunders vs. Vautiers).

 

La deviazione dallo “schema tipico” del trust verso istituti di diversa natura ed i “sintomi” dell’interposizione sono più volte stati affrontati dall’Amministrazione Finanziaria (cfr. Circolare 43/E/2009 e Circolare 61/E/2010). Possibili ulteriori “sintomi” di interposizione deriverebbero anche da un utilizzo ingiustificato e sistematico dei beni da parte del disponente, dalla frequente ingerenza nelle operazioni di gestione (disponente, protector e beneficiari) ovvero dall’esercizio di poteri che limitino fortemente quelli del trustee (eterodirezione), secondo quanto precisato da Banca d’Italia (cfr. Comunicazione UIF 2 dicembre 2013).

 

Tutto ciò farebbe lecitamente dubitare in merito alla “tenuta” del trust e, quindi, all’esistenza stessa dell’istituto, fisiologicamente riqualificabile come mero “negozio fiduciario” (in cui il fiduciario è il trustee). I beni costituenti il trust fund (e i correlati redditi) dovrebbero essere pertanto attribuiti esclusivamente al soggetto interponente (settlor/beneficiario). In presenza quindi di trust fittiziamente interposti, sarà proprio il soggetto interponente (settlor/beneficiario), se fiscalmente residente in Italia, l’unico responsabile degli obblighi tributari connessi ai beni in trust, che qualora violati, potrebbero essere regolarizzati mediante l’attivazione della procedura di voluntary disclosure.

 

E se venisse superata la prova dell’interposizione? Ce ne occuperemo alla prossima newsletter.

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