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Quando il carried interest non è rilevante

3/11/2020 | Stefano Massarotto Facchini Rossi Michelutti Studio Legale Tributario

La norma oggetto di un interpello dell'Agenzia delle Entrate riguarda solo la qualificazione dei proventi che derivano dall’investimento, e non si occupa della fase precedente di assegnazione di questi strumenti.


L’art. 60 del D.L. n. 50/2017 si è occupato per la prima volta del trattamento fiscale del c.d. carried interest, introducendo una presunzione di legge secondo cui, al verificarsi di alcune condizioni, i proventi incassati dai manager di società e fondi di investimento, derivanti da quote, azioni o strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati, si qualificano in ogni caso come redditi di natura finanziaria tassati al 26%.

 

La norma però riguarda solo la qualificazione dei proventi che derivano dall’investimento, e non si occupa della fase precedente di assegnazione di questi strumenti.

 

E proprio in relazione alla tassazione - quale reddito di lavoro dipendente – dell’assegnazione di questi strumenti si ponevano i maggiori dubbi per gli operatori di mercato. Non era chiaro, infatti, se il “valore normale” di tali azioni dovesse essere determinato in relazione al valore economico della società attribuendo un valore incrementale alla aspettativa che in futuro potesse sorgere il diritto al carried interest.

 

I dubbi vengono finalmente risolti dalla Risposta ad interpello n. 77 del 2020 con cui l’Agenzia delle entrate, molto opportunamente, precisa che la tassazione del reddito di lavoro dipendente è governata dal principio di cassa e, pertanto, il carried interest non è rilevante ai fini della determinazione del loro valore normale in sede di assegnazione, salvo che lo stesso non sia già maturato (c.d. “in the money”).

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