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Private equity, buy out sempre più decisivo

2/8/2024 | Redazione ADVISOR

Secondo la ricerca condotta da AIFI e DLA Piper, il segmento è in rapida crescita e dal 2022 ha registrato un incremento del 103% grazie anche al contributo dei player internazionali


Circa 11 miliardi di euro per 185 operazioni nel 2022: il buy out rappresenta un segmento fondamentale del private equity italiano, arrivando a pesare il 46% dell’ammontare investito e a raccogliere negli ultimi dieci anni ben 48 miliardi.  Un segmento in rapida crescita che dall’anno precedente ha registrato un incremento del +103% grazie anche al contributo dei player internazionali, che continuano a manifestare grande interesse per il mercato italiano. 

Uno dei fattori chiave per il successo di questa tipologia di operazioni è costituito dalla presenza di un team manageriale coeso e “committed” verso la creazione di quel valore che determinerà il ritorno auspicato dell’investimento. In questi contesti, la spinta propulsiva del management team risulta non solo decisiva per il buon risultato dell’operazione, ma svolge anche un effetto positivo più generale per lo sviluppo delle aziende che sono oggetto di buy out. La incentivazione e la responsabilizzazione del management team contribuisce, inoltre, alla individuazione di modelli di leadership che si affiancano a quelli tradizionalmente basati sulla figura degli imprenditori e alla generazione di un forte impulso alla crescita e affermazione professionale di chi svolge tali ruoli. 

E’ questo il tema al centro dell’indagine “Buy out e incentivi ai manager”, realizzata congiuntamente da AIFI, Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt, e DLA Piper, il principale studio legale internazionale in Italia, e presentata ieri presso la sede dello studio nel corso dell’evento DLA Piper Private Equity Annual Roundtable, durante il quale sono intervenute, dopo i saluti istituzionali del Country Managing Partner di DLA Piper in Italia, Wolf Michael Kühne, la Direttrice Generale di AIFI, Anna Gervasoni, Carlotta Benigni, Partner del Dipartimento Tax di DLA Piper e Sira Franzini, Senior Lawyer del Dipartimento Corporate M&A di DLA Piper, le quali hanno fornito una overview sulle tematiche societarie e fiscali legate alla ricerca. Si è tenuto poi un panel di analisi dei risultati della ricerca con rappresentanti di primari fondi di private equity e di management team rappresentati da Luigi Tommasini, Senior Partner di Fondo Italiano d’Investimento, Francesco Becchelli, Senior Partner di Algebris Green Transition Fund, Maurizio Esposito, CEO di Credem PE, Domenico Tonussi, Managing Partner di Itago, Dino Natale, Amministratore Delegato  di Finlogic S.p.A., e Gianni Panconi, CFO di Safety21 S.p.A., moderato dai Partner di DLA Piper, Alessandro Piermanni (Corporate M&A) e Christian Montinari (Tax). 

L’analisi effettuata punta il faro su un campione di 40 operatori del private equity, di cui 24 domestici e 16 internazionali per un totale nel periodo 2013-2022 di 349 operazioni (il 32% degli investimenti di buy out nel mercato italiano) e 13 miliardi di capitale investito (il 28% dell’ammontare investito in buy out nel mercato italiano). 

“Lo studio mette in evidenza il ruolo fondamentale del private equity nella crescita e valorizzazione del management; Il 40% degli operatori ha inserito almeno tre nuovi manager e l’81% ha utilizzato incentivi almeno in tre operazioni su quattro”, dichiara Anna Gervasoni, Direttrice Generale AIFI, “il contributo dei fondi sul capitale umano permette una crescita delle competenze che è fondamentale per consolidare l’impresa e permetterle di affrontare le sfide dei mercati”. 

Per Alessandro Piermanni (DLA Piper): “L’incentivazione del management team costituisce un elemento chiave per il successo delle operazioni di buy out, queste forme di premialità volte all’allineamento degli obiettivi tra investitori e gestori, contribuiscono alla creazione e sviluppo di una categoria professionale determinante per la crescita e la competitività delle imprese. Per i fini del buon funzionamento del sistema è molto importante che il quadro normativo di riferimento risulti chiaro e che a livello applicativo non vi siano incertezze”.

Christian Montinari (DLA Piper) sottolinea che: “Il Private Equity ricopre un ruolo chiave per la crescita economica e per la trasformazione tecnologica del Paese nonché per il rapido raggiungimento di obiettivi fondamentali in ambito di sostenibilità delle imprese e, più in generale, in termini ESG. Sono, quindi, necessarie norme fiscali volte ad agevolare il capitale umano e finanziario dedicato a questi cambiamenti. In questo contesto il ruolo e l'attività dei manager sono determinanti per il raggiungimento di questi ambiziosi obiettivi"

I risultati della ricerca 

Il ruolo dei manager 

La ricerca evidenzia che nelle operazioni di buy out una parte consistente degli operatori punta alla valorizzazione, stabilizzazione e incentivazione dei team manageriale interno alle aziende target. Nel caso vengano coinvolti profili esterni, essi si innestano generalmente nell’area finanziaria e di direzione. La figura dell’imprenditore rimane, comunque, centrale in quanto oltre l’80% degli intervistati ha realizzato almeno un buy out con il coinvolgimento dell’imprenditore che rimane a ricoprire il ruolo di manager. La ricerca mette in luce, inoltre, il ruolo determinante degli head-hunter, infatti, in 3 casi su 4 la selezione dei manager esterni viene effettuata tramite queste società specializzate. 

Gli incentivi ai manager risultano largamente inseriti da parte degli operatori 

Lo studio mostra che le forme di incentivazione sono presenti nella stragrande maggioranza delle operazioni in quanto tale modello premiale realizza al meglio l’allineamento degli interessi tra il fondo investitore ed il management team: l’81% degli operatori dichiara, infatti, di aver inserito incentivi ai manager in almeno 3 operazioni su 4. 

Considerando la minor capacità finanziaria dei manager, le forme di incentivazione passano principalmente attraverso strumenti di c.d. sweet equity, cioè strumenti finanziari che permettono di ottenere ritorni più che proporzionali rispetto a quanto investito.  Poiché questi rendimenti sono tendenzialmente correlati alla creazione di valore derivante dallo svolgimento di attività professionale, il tema del trattamento fiscale di questi strumenti assume particolare rilievo, in quanto, come noto, il regime fiscale dei redditi da lavoro è significativamente più oneroso di quello dei redditi di natura finanziaria e, a tal fine, occorre essere in grado di adottare soluzioni che non producano criticità. 

Da questo punto di vista l’analisi di mercato dimostra che la modifica normativa in materia di “carried interest” (art. 60 DL 50/2017) ha introdotto nel nostro ordinamento un elemento di grande utilità per gli operatori, tanto che per il 66% del campione interpellato lo strumento dello “sweet equity”, è diventato prevalente rispetto a quello dei bonus tradizionalmente tassati secondo le aliquote del reddito da lavoro. Tale struttura viene infatti inserita dal 40% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti.  Fa riflettere il fatto che dalla ricerca emerge come questi strumenti comincino ad essere offerti non solo ad AD e prime linee dell’azienda ma anche al “middle management”. 

L’indagine dimostra, inoltre, che al momento il mercato non ha ancora elaborato in modo consistente indicatori di performance manageriale diversi da quelli finanziari (per esempio indicatori incentrati sulle tematiche ESG).  I fattori del ritorno c.d. Cash-on-Cash (cioè il multiplo realizzato rispetto a quanto investito) e dell’IRR (cioè il tasso di rendimento del capitale investito) rimangono, infatti, preponderanti. A tal riguardo, il mercato evidenzia la predilezione per una combinazione delle due metriche in quanto, l’utilizzo di una sola delle due potrebbe non cogliere appieno il senso del risultato effettivamente ottenuto dall’investimento.  Resta confermato che gli strumenti per l’assegnazione di tali rendimenti sono sostanzialmente quelli della attribuzione di strumenti azionari o finanziari e del c.d. exit ratchet, cioè il pagamento in denaro ai manager di parte dei proventi derivanti dal disinvestimento da parte dell’investitore

Stock option

La ricerca evidenzia la flessione, a scapito degli strumenti descritti in precedenza e soprattutto a seguito della introduzione della normativa sul carried interest, delle stock option. 

Lo strumento del management by objectives (c.d. MBO), ovvero l’assegnazione di obiettivi individuali ai manager il cui raggiungimento è premiato tramite pagamento di bonus, risulta essere particolarmente diffuso e legato al raggiungimento di obiettivi specifici ed individualizzati, non strettamente correlati al ritorno sull’investimento: esso viene inserito infatti dal 65% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti, coinvolgendo AD e prima linea dell’azienda nel 67% dei casi, mentre nel 28% dei casi si arriva a coinvolgere anche il middle management. Tra gli obiettivi specifici quelli relativi all’area di attività del manager o anche quelli complessivi (come principalmente EBITDA e Posizione Finanziaria Netta). 

Co-investimento e re-investimento 

Lo strumento del co-investimento/re-investimento, che prevede il re-investimento da parte dei soci/soci manager in società del gruppo investitore o nella società target con finalità di allineamento di interessi, rappresenta una ulteriore modalità operativa che viene inserita dal 55% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti, coinvolgendo principalmente AD e prima linea dell’azienda. Questi re-investimenti possono arrivare ad ammontare fino al 10-30% del valore del deal. 

Condizioni di “good leaver” o “bad leaver” influiscono sul valore di riacquisto 

Un punto estremamente sensibile analizzato dallo studio è quello degli eventi interruttivi del rapporto di collaborazione con il management e del trattamento di tali circostanze in funzione delle cause che le hanno determinate.  In quasi la totalità dei casi esaminati si prevedono condizioni di c.d. good/bad leaver dove, il “good leaver” ricomprende prevalentemente ipotesi di morte/invalidità, dimissioni per giusta causa e revoca senza giusta causa, mentre il “bad leaver” ricomprende prevalentemente revoca per giusta causa e dimissioni in assenza di giusta causa.  

Le cause di leavership precludono di regola la prosecuzione del rapporto sociale determinando pattuizioni di acquisto/riscatto delle partecipazioni e/o degli strumenti emessi e incidono sulle condizioni economiche di riacquisto: in caso di good leaver il riacquisto avviene nel 92% dei casi al fair market value, quindi, con modalità non penalizzanti, mentre in caso di bad leaver il riacquisto avviene nel 92% dei casi a un valore inferiore al fair market value.  Interessante notare che il 95% degli operatori non ha affrontato un contenzioso sulla sussistenza di eventi di good leaver/bad leaver. 

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