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SdR 24, la consulenza a parcella nascerà dall'insoddisfazione della clientela

4/11/2024 | Daniele Barzaghi

Andrea Ragaini, Alessandro Gandolfi, Sergio Albarelli, Lorenzo Alfieri, Emanuele Bellingeri e i ragazzi del master di AIPB hanno animato la conferenza per i 20 anni di ADVISOR, moderata da Francesco D'Arco


“Permettetemi di mettere il cappello di direttore responsabile di Advisor” afferma Francesco D’Arco (a sinistra nella foto in alto) dal palco della conferenza “20 di cambiamento” tenuta al Salone del Risparmio 2024 (riguarda  qui). “Vent’anni fa l’industria del risparmio gestito e amministrato non aveva eventi come quello dove siamo oggi riuniti, aveva un’unica testata giornalistica di riferimento, e permettetemi di ricordare che era la nostra, e, pur avendo ancora oggi diversi aspetti da migliorare, è riuscita a creare un comparto sano grazie alle professionalità dimostrate collettivamente. Un comparto abitato da persone soddisfatte”.

L’elemento più delicato resta il rapporto tra distribuzione e produzione, tra banche e reti da un lato e le case di gestione dall’altro; un rapporto che cambia continuamente e che infatti ha costituito il fulcro del dibattito, anche acceso, tra gli ospiti intervenuti.

“Arduo sintetizzare vent’anni in due minuti” rompe il ghiaccio il primo dei relatori, il presidente di AIPB Andrea Ragaini. “Nel 2004 la prima Mifid aveva iniziato a veicolare il concetto di segmentazione della clientela; nelle banche già si intravedeva ma non era presente come tuttora non esiste nelle assicurazioni. E forse non è un caso che proprio allora nasceva l’Associazione Italiana Private Banking che raccontava per la sua stessa natura questa ripartizione della clientela a partire dai 500.000 euro di patrimonio finanziario. Con Mifid 2 questo concetto è stato portato avanti valorizzando la logica di servizio e in vent’anni si è arrivati alla centralità della relazione tra banker e cliente”.

“Dal lato dell’asset management” lo segue Alessandro Gandolfi di Pimco “posso dire che entrare 20 anni fa nelle case di gestione era scegliere il fratello povero, se paragonato ad esempio all’investment banking. Mentre ora è un settore che affascina tutti. Due sono stati, a mio giudizio, i momenti fondamentali per questo cambiamento: il 2008, quando la crisi finanziaria ha dato consapevolezza dei rischi finanziari favorendo una diversificazione dei fondi in cui investire, e il 2011, quando la crisi del debito ha ribadito il pericolo di concentrarsi su pochi titoli. L’innalzamento dei tassi di interesse oggettivamente ci ha aiutato negli ultimi anni ma ora il vento sta cambiando e bisogna cambiare le composizioni dei portafogli”.

“Come in tante architetture europee” prende la parola Sergio Albarelli (in foto sotto), figura di riferimento del risparmio gestito italiano per aver guidato per anni Franklin Templeton Investments e Azimut e ora appena entrato nel cda di SudTirol Bank, “il regolatore non ha fatto altro che inseguire il mercato. L’industria in realtà si era già mossa: a metà degli anni 90 c’erano già piccolissimi operatori che offrivano architetture aperte di portafoglio, gestioni patrimoniali in sicav di terzi. L’esplosione vera non è stata nel 2004, ma prima, nel 1993. In Italia c’erano già operatori come Fleming, JP Morgan, Schroders, l’allora Templeton che, in attesa di capire dove andasse il mercato, avevano già iniziato ad aprire uffici nel nostro Paese”.

“Quanti tra gli internazionali hanno avuto la costanza di restare sul mercato proponendo concetti di professionalità e diversificazione sono stati poi premiati. Con un risultato non a livello di singola azienda, ma di intero comparto. Per non dire dei benefici per l’investitore, impensabili fino a pochi anni prima. Certo, c’era grandissima volatilità, con anni in cui chiudevi i bilanci col 30% del patrimonio che avevi in cassa a gennaio: risultati pesanti per le società ma anche e soprattutto per i clienti. E lì ha iniziato a svilupparsi la normativa. Spendemmo cifre massicce per reclutare professionisti in grado di tradurre Mifid sul mercato; per non menzionare le difficoltà a spiegare alle case madri americane cosa fosse quella robaccia che stava arrivando: tradurre Mifid in business era complicato”.

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I momenti di rottura menzionati da Gandolfi e Albarelli trovano conferma nelle parole del presidente di AIPB secondo cui “durante le crisi la percezione del ruolo dei professionisti e della relazione è sempre aumentata. Dalle nostre ricerche, in 17 anni di monitoraggi, il primo elemento di definizione del servizio di private banking segnalato dai clienti è l’avere un professionista dedicato”.

Le sgr estere hanno dimostrato maggiore reattività, modificando prima il proprio profilo, ma tale apertura ha aiutato molto anche le società italiane” riprende il filo lo storico numero uno di Pimco in Italia. “Quando lavoravo allora in quella che oggi è la principale casa di gestione italiana la sensazione era che noi facessimo un mestiere diverso rispetto agli asset manager internazionali. Con l’apertura del mercato tutti gli operatori hanno tratto beneficio, anche se purtroppo non si è creato, come invece si pensava allora, un campione nazionale in grado di uscire dall’Italia; nonostante le ingenti masse oggi raccolte”.

“I grandi asset manager esteri erano pensati per la clientela istituzionale; al limite per grandissimi patrimoni familiari. La distribuzione retail era appannaggio delle banche in tutta Europa e, anzi, nell’Europa continentale era l’Italia il primo mercato per architetture aperte”.

“Non bisogna avere dogmatismi e pensare di imporre lo stesso modello a tutti” chiarisce la propria posizione Sergio Albarelli, “come oggi sento fare, ad esempio, in tema di consulenza a parcella. Ogni sistema ha la propria logica. Ed è arduo paragonare il modello inglese o quello tedesco formato da persone che intendono come secondo lavoro il consulente finanziario, essendo innanzitutto impiegati amministrativi piuttosto che macellai o panettieri. Lo trovo aberrante. A un sacco di clienti piacerebbe pagare direttamente il professionista piuttosto che sapere che la loro retribuzione deriva dai prodotti”.

In Italia ogni tre mesi esce un report fondamentale per le case di gestioni. E non è quello di Assogestioni. In questo rapporto (che Albarelli non cita esplicitamente, ndr) viene calcolata la performance delle singole case di gestione, non dei loro prodotti. E il gruppo è diviso tra società estere e realtà italiane: ebbene, gli stranieri performano molto meglio; nell’ordine del 10-15% in più. Lasciando i gruppi italiani arrotondare il proprio risultato di appena il 2-3%” prosegue la storica guida di Franklin Templeton in Italia. “Poi, guardando le commissioni, ci si accorge che ci sono gruppi che in cinque anni hanno dato uno 0% di performance ai clienti privati e hanno ugualmente aumentato le commissioni del 15%”

“La consulenza a parcella nasce anche da questo: il cliente è assolutamente insoddisfatto del servizio che gli viene offerto e cerca di ottenere profitto con nuovi metodi. Ma il sistema italiano è costruito per passare attraverso le banche, anche nel caso della consulenza indipendente. In passato erano state lanciate piattaforme per bypassare questo sistema di distribuzione ma non stupisce che siano state abortite tutte”.

Certo, le barriere all’ingresso sono tante, come ricorda Francesco D’Arco ai suoi ospiti. Sia per le società, sia per le persone. E la sensazione è che i brand in campo siano ormai sempre gli stessi.

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“Abbiamo vissuto un periodo storico roboante” si leva a sorpresa dal pubblico la voce di Lorenzo Alfieri (in foto sopra), oggi wealth manager di punta di Intesa Sanpaolo PB ma noto all’industria per il suo precedente ruolo di responsabile italiano di JP Morgan Asset Management, intervenuto per il ventennale di Advisor. “Adesso le cose sono molto più complicate. Ora gli attori non hanno le mani libere come le avevamo noi 20 anni fa. Il set delle opportunità è meno ridotto e i margini tendono a scendere. Basta vedere anche il successo degli Etf. Non voglio apparire funereo ma un consolidamento dell’industria ci dovrà essere. Resteranno i grandi player e una serie di boutique estremamente specializzate”. 

“Per gli Etf ricordo all’amico Lorenzo che si deve guardare il cost/income, non le revenue” ironizza Emanuele Bellingeri (in foto sotto), che chiede un microfono dall’altro lato della platea, ricordando da responsabile di UBS Asset Management gli anni in cui portò al successo iShares. Venuto a festeggiare il compleanno della storica testata del risparmio gestito italiano, aggiunge: “Entrare nel mercato distributivo è sempre più difficile per una casa di gestione straniera. Ormai si sono create partnership consolidate non solo tra sgr e strutture di distribuzione, ma anche tra i singoli professionisti che le rappresentano”.

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“Come tante industrie entrate nella propria maturità” risponde dal palco Andrea Ragaini, “anche la nostra ha ricercato economie di scala. E non è una novità che il mercato sia guidato dalla distribuzione”.

Le case di gestione tenderanno a rinforzare questi accordi, perché sanno che vedranno ridursi negli anni il numero dei propri distributori” prosegue il ragionamento Gandolfi. “Aumenteranno pertanto i prodotti forniti. Penso per esempio ai private asset, visto che ora anche le strutture distributive si sono dotate di professionisti in grado di soppesare tali soluzioni”.

“Concordo con Lorenzo: c’è un’ipertrofia del mercato. L’80% degli uffici degli asset manager sono inutili e con troppo personale” è il nuovo esordio di Albarelli. “Ogni operatore si deve specializzare perché la distribuzione retail costa oggi una barca di soldi, con un personale che sta raggiungendo dei livelli di costo ormai insostenibili. Basterebbe un ufficio di professionisti specializzati che copre tutto il mercato europeo, come si faceva negli anni gloriosi”.

“Vedo nel futuro lo stesso numero di operatori, ma più piccoli e appunto molto più specializzati” prosegue il nuovo membro del cda di SudTirol Bank. “E cambierà anche l’approccio dei distributori. Siamo sinceri: veramente un consulente o un banker, per valutare un prodotto, ha bisogno di una presentazione da parte di un commerciale di una casa di gestione? Coi dati oggi disponibili probabilmente lo capisce e lo conosce meglio del sales manager che glielo presenta”.

Oggi il sistema vive ancora della voglia delle case madri di essere presenti nei diversi Paesi: come quando le banche giocavano a mettere le bandierine delle filiali in giro per l’Italia. Il risultato è avere oggi strutture nazionali di 35 persone, con meno di 10 miliardi di patrimonio. Non sono giustificabili” puntualizza. “Le case madri tengono aperti quegli uffici per appagare il proprio ego, il testosterone, per poter dire ‘abbiamo un ufficio importante in Italia’. È sbagliato. Perché poi a un certo punto qualcuno tirerà una riga e dal quartier generale arriverà l’indicazione di lasciare a casa un quarto del personale. Ma cosa vuol dire?! Allora era meglio non assumerlo prima”.

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“Quando io lavoravo ancora a Londra il Global Bond della Templeton guidata da Albarelli era il leader assoluto del mercato. E quando chiedevi come mai ai distributori ti rispondevano che la loro casa metteva a disposizione una nutrita squadra di tecnici a supporto. Dalle parole di Sergio capisco che i tempi siano cambiati e così i suoi convincimenti” ricorda Gandolfi (in foto sopra), raccogliendo la conferma dell’interlocutore.

“Devo dire che noi abbiamo attraversato due anni abbastanza difficili ma abbiamo continuato a guadagnare. Certo, bisogna difendere i margini, ed è complicato nell’interlocuzione con la distribuzione. Però non siamo di notte dove tutte le vacche sono grigie: se hai dei valori devi riuscire a difenderli. La necessità di distributori e case di lavorare in sintonia trovando soluzioni adatte al momento diventa prioritario. L’idea che improvvisamente diventi tutto virtuale e non servano più i faticosi roadshow nelle diverse città mi sembra lontana dallo scenario attuale”.

“Legittima è la scelta di un asset manager di non presidiare tutti i mercati nazionali e di adeguarsi alle loro regole, ma se entro al Meazza gioco a calcio, non a tennis” interviene netto Andrea Ragaini (in foto sotto). “E le regole di gioco in Italia sono che alla distribuzione serve che la casa di gestione offra un team italiano in grado di narrare i prodotti; e non soltanto nelle componenti tecniche. Magari le regole potranno cambiare in futuro ma oggi sono che al cliente serve un banker, così come il banker necessita di un referente nella casa di gestione”.

“Molto corretto però quello che dice Sergio e cioè che a un gestore questo non serve. La tecnologia magari potrà dare un aiuto. D’altronde il 70% dei leader del private banking monitorati ritiene che la tecnologia cambierà in maniera dirompente il nostro settore. Il 76%, quindi ancora di più, ritiene che l’AI cambierà il modello di servizio del private banking, ovvero la centralità del rapporto banker-cliente. L’88% dei leader del private banking ritiene che l’utilizzo del ‘dato’ cambierà il lavoro del private banker. Non si può non tenerne conto, ma noi siamo altresì convinti che il banker resterà al centro, con la tecnologia addizionale a sua disposizione, così da svolgere meglio il proprio lavoro, sempre più basato sulla relazione umana”.

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Non è vero che l’Italia non cresca: cresce poco e male” prende le misure per la replica Sergio Albarelli. “E la ricchezza così prodotta non è adeguatamente trasferita sui mercati finanziari. Resta centrale il mattone: il problema è che, con la notabile eccezione di Milano, gli immobili in Italia non garantiscono performance così spettacolari. E anche a Milano questo finirà quando, completata ad esempio l’alta velocità con Genova, i lavoratori milanesi valuteranno di fare i pendolari, scoprendo che con la cifra con cui a Milano si compra un bilocale a Genova si può trovare un’ampia casa con vista mare”. 

“Certo” e qui carica il proprio intervento, “è difficile parlare di ricchezza quando i principali asset manager italiani negli ultimi cinque anni non hanno dato performance; se io affido il 100% dei miei risparmi e vedo che in un lustro sono aumentate del 10% le commissioni a fronte di una performance sotto l’1% evidentemente qualcosa non funziona. Noi possiamo mettere tutto lo zelo nell’attirare nuova clientela ma se vendiamo robaccia il dato della ricchezza non crescerà mai”.

“Belli gli slogan alla ‘portiamo il risparmio verso l’economia reale’ ” prosegue l’ex a.d. di Azimut, “ma a casa mia l’economia reale non è il fintech: sono le linee metalmeccaniche, le pmi che fanno bulloni, le attività legate alla filiera alimentare. Se a loro arrivasse il risparmio si vedrebbero belle cose. E, vista la difficoltà di raccogliere risparmio e tenerlo bloccato magari per cinque anni, mi aspetto un rendimento di un certo tipo. A me fa molta paura la formula 'Democratizzazione dell’investimento nelle piccole e medie imprese' : mi puzza tanto di fregatura per i prossimi cinque anni”.

“Esistono fondi di private equity seri ma hanno delle soglie difficili da raggiungere anche per un investitore di fascia alta" risponde Albarelli a una domanda degli studendi del master in private banking di AIPB. "Ma il problema – e da qui nasce la mia polemica – è che si raccontano le grandi operazioni con multipli di 10 e gli investitori credono di comprare la stessa cosa. Dimentichiamoci che quella roba lì finisca in questi fondi. Per un cliente finale non ci saranno gli stessi numeri. Saranno risultati mediati da una pletora di commissioni diverse, da un orizzonte temporale molto differente e da momenti in cui qualcuno, non vedendo il Nav quotato, avrà pure un minimo di apprensione”. 

Quello che non mi piace  di questa enfasi eccessiva è il non raccontare che il rendimento atteso non sarà mai uguale a quello ottenibile da un’operazione simile ma con forma giuridica diversa. Ovvero un investimento diretto, o club deal, ma di quelli veramente seri, che ti chiedono due milioni per entrare e altri tre per fare investimenti” batte sul punto Albarelli. “Se al cliente raccontiamo che offriamo prodotti scollegati dai mercati principali, dobbiamo fare sì che - visto che facciamo pagare il 3% - questi rendimenti siano almeno del 7-15% composto nei 10 anni successivi”.

“E naturalmente si preconizza sempre lo scenario in cui le condizioni economiche generali siano a supporto. Ma i mercati ispirano una tendenza, anche se sono decorrelati dal prodotto. E, se c’è anche una piccola correzione dei listini, ci immaginiamo cosa significhi andare, dopo due anni, da tutti i sottoscrittori e dire loro che devono restare investiti ancora tre anni, senza possibilità di uscire? Questo genere di prodotti va indirizzato verso gli investitori giusti e non va spalmato su tutti portafogli soltanto perché c’è un’esigenza di offrire prodotti di private equity o di venture capital”.

 

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