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Nuovi PIR, la strada imboccata non è quella giusta

1/30/2020 | Redazione Advisor

Borsadelcredito.it spiega che, anche con le modifiche apportate per il 2020, i Piani individuali di risparmio coprono solo una nicchia piccolissima delle nostre industrie


Dopo un anno di blocco, tornano in auge i PIR. Pur apprezzando nel merito il tentativo di dare vita a uno strumento di investimento che aiutasse l’economia reale, BorsadelCredito.it da sempre ne sottolinea i limiti. Ancora auspichiamo che qualcosa possa cambiare, anche se il tentativo di trasformare i panieri allargandoli a titoli diversi da quelli quotati (segnatamente il Venture Capital) si è rivelato fallimentare nel 2019. La strada, con ogni probabilità, non è quella giusta e vorremmo provare a dare il nostro punto di vista. Prima però facciamo un passo indietro e riassumiamo l’oggetto di cui parliamo.

Cosa sono i PIR

I Piani Individuali di Risparmio sono portafogli lanciati nel 2017 per convogliare l’enorme capacità di risparmio delle famiglie italiane nelle PMI, che costituiscono l’ossatura della nostra economia. Dunque, il 70% di questi portafogli doveva essere costituito, fin dalla formulazione originale, da titoli azionari o obbligazionari, quotati o non quotati, di aziende italiane e di questa quota il 30% doveva essere destinato a società fuori dal Ftse/Mib. È vero che teoricamente il fondo può investire in società non quotate ma, pur avendo il vincolo di destinare un 21% del paniere ai titoli fuori dal Ftse/Mib, era prevedibile – come infatti è stato successo – che si limitasse alle azioni o ai bond più liquidi (parliamo cioè di quelli emessi da società comunque quotate su STAR o sul listino delle Mid Cap e in parte su AIM). Ovvero 380 aziende sulle oltre 5,3 milioni di PMI italiane che conta Prometeia.

Le novità 2020

Se nel 2019 la finanziaria aveva disegnato i PIR 2.0 con l’introduzione di due nuovi obblighi (ovvero il 3,5% destinato al Venture Capital e una quota pari ad AIM), nel 2020 è di nuovo cambiato tutto. L’ultima normativa prevede sostanzialmente tre novità: la prima è l’obbligo di investire il 3,5% del paniere totale in titoli fuori da Ftse Mib e Ftse Mid; la seconda è l’abrogazione della quota destinata al Venture Capital; la terza l’eliminazione del vincolo che prevedeva per i fondi pensione il limite di investire in un solo PIR con un massimo del 10% del patrimonio totale. Le case di affari hanno tirato un sospiro di sollievo soprattutto per l’eliminazione del Venture Capital, sul quale, trattandosi di un asset illiquida e per cui non esiste un Nav da monitorare, c’era una difficoltà a comporre panieri Ucits compliant. Il mercato, che tra il 2017 e il 2018 aveva raccolto 15 miliardi di euro e che nel 2019 ne aveva perso poco meno di uno, si è rimesso in marcia e per l’anno le stime sono di una raccolta tra i 2 e i 3 miliardi.

Uno strumento monco

Resta invariato il beneficio fiscale – la totale esenzione dalle tasse se lo strumento viene detenuto per almeno cinque anni – che è un importante catalizzatore di domanda. Mentre si consumava questa vicenda, nel Regno Unito gli IFISA – la versione degli Isa (i Pir britannici) con il Fintech – prendevano il volo, passando dai 36 milioni di sterline a fine 2016 a 290 milioni a fine 2018 (dati HMRC, il dipartimento governativo britannico responsabile per la riscossione delle imposte), con un importo medio a 9.355 da 7.200 sterline (circa +30%) e prospettive di crescita ancora più interessanti.

Prospettive

In questi tre anni è stato detto tutto e il contrario di tutto. Che i PIR avrebbero salvato le piccole e medie imprese italiane; che all’estremo opposto l’universo investibile non era abbastanza ampio da garantire capienza; che nell’attuazione i punti bui erano tanti e tali da far rischiare all’investitore di perdere il beneficio fiscale; che lo stesso venisse eroso da commissioni troppo elevate per una ricerca sottostante troppo costosa in proporzione alla dimensione delle imprese investite. Dell’esclusione forzata delle PMI consolidate – micro e piccole, già fuori dai radar delle banche e dalla Borsa e che sono il cliente privilegiato del P2P lending – invece si è parlato poco o nulla. Probabilmente, guardando indietro, dei FinTech PIR non funzionerebbero e potrebbe ripetersi quanto accaduto con il tentativo di far entrare il Venture Capital nei panieri.

Ma certamente, considerato il sottosviluppo della Borsa e i costi elevati della ricerca per le Sgr su società poco investite, i tempi paiono maturi per pensare a strumenti simil–PIR dedicati a questa fetta enorme della produzione a oggi fuori dai giochi. Che è anche la parte più debole della nostra industria, quella che fatica di più a trovare canali di finanziamento e che rappresenta il destinatario principale dei servizi offerti da BorsadelCredito.it. Nonché quella a cui il piccolo risparmiatore italiano potrebbe ridare gas, con vantaggi per tutti.

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