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Btp - Bund: uno spread che non paga il rischio

2/11/2014

Donatella Principe, responsabile institutional business di Schroders Italia, spiega le due facce della politica monetaria della Bce e il suo impatto sulle obbligazioni dei paesi periferici


Lo spread tra Btp e Bund da settimane viaggia attorno ai 200 punti. Stamane il differenziale tra il titolo tedesco e quello italiano è sceso addirittura a 199,7 punti, con il rendimento del Btp a 10 anni al 3,68%. Cosa si nasconde dietro queste performance? Di seguito un commento di Donatella Principe (nella foto), responsabile institutional business di Schroders Italia.

Gli ultimi mesi hanno fatto registrare una decisa accelerazione di quel trend positivo che dal “Whatever It Takes” di Draghi ha consentito ai Piigs di lasciarsi alle spalle la situazione dei massimi di spread del 2011-2012. L’andamento del mercato obbligazionario italiano (ma in generale dei periferici dell’Eurozona) ha beneficiato di un miglioramento progressivo e significativo del sentiment degli operatori. Gli investitori internazionali e istituzionali sono tornati a comprare i governativi Piigs e neanche i timori delle ricaduta negative dell’asset quality review della Bce hanno fino a oggi invertito il trend al ribasso di rendimenti e spread. A questo sentiment positivo ha certamente contribuito il clima di fiducia indotto dall’attivismo della Bce, che in alcuni casi si è tradotto anche in miglioramenti sul fronte delle dinamiche macroeconomiche. 

L'altra faccia della medaglia della fiducia portata sui mercati dalla Draghi-put è che è venuta progressivamente meno la pressione sui governi nel portare avanti il processo di riforme strutturali, in cima alla lista delle priorità ancora nel 2011-2012. Questo ha importanti implicazioni di lungo periodo, perché vuol dire che gli squilibri strutturali permarranno e continueranno a pesare anche in futuro sulle reali prospettive dei paesi periferici. Un’analisi oggettiva dei dati mostra quanto critica resti la situazione di queste economie, che combinano deficit strutturali con livello di debito eccessivamente elevati, il cui costo del servizio eccede nettamente quello di crescita del Pil.

Le due economie che sono maggiormente in ritardo sull’agenda delle riforme sono l’Italia e la Francia; accomunate anche da una situazione politica meno stabile, che rende più impervio il cammino verso la ripresa rispetto a quello delle altre economie periferiche. Per l’assenza di riforme strutturali (dal mercato del lavoro alla politica industriale) la competitività internazionale dell’Italia è su un sentiero negativo e divergente rispetto alle altre economie europee. La sua situazione è anzi peggiorata rispetto all’inizio della crisi greca (2009), quando ancora la sua perdita di competitività dall’introduzione dell’Euro era al -40%: oggi siamo prossimi al -50%. In Italia nello specifico la percezione degli osservatori internazionali è che sia stato fatto davvero molto poco per affrontare problematiche come la burocrazia, il sistema del welfare state o il miglioramento delle condizioni per la gestione delle attività economiche.

Una sfida ancora maggior viene dal problema demografico. Non vi è solo l’evidenza connessa agli squilibri del mercato del lavoro e della sostenibilità del sistema pensionistico collegati con l’invecchiamento della popolazione, ma ci sono implicazioni anche per l’operatività di settori chiave dell’economia, come quello bancario. Il credito in aree critiche come quella immobiliare e delle imprese presenta tassi di domanda decrescenti al crescere dell’età media della popolazione. La situazione è peggiorata dal fatto che l’Italia sta vivendo un vero e proprio credit crunch, che renderebbe anche in condizioni normali difficile sostenere la ripresa economica e che rischia di peggiorare con l’approssimarsi dell’asset quality review della Bce.

L’anemico tasso di crescita del Pil italiano e la ridotta produttività dell’economia lasciano pochi spazi con un debito pubblico passato dal 2009 a oggi dal 116% al 136%; e un deficit di bilancio che dal -2,7% pre-crisi si attesta oggi al -3,2%. I rischi di deflazione incombono come una nuova minaccia sulla sostenibilità del rientro del debito e sull’inversione del trend di crescita.

In termini d’investimenti nelle obbligazioni dei paesi periferici e in particolare in Italia, la nostra predilezione è per trade di breve periodo in caso di sovrareazione del mercato a specifiche notizie, piuttosto che un posizionamento strutturale che richiederebbe un maggior ottimismo sulle prospettive di queste economie. La ragione per la quale non siamo completamente negativi su questi paesi è legata alla ripresa globale, ma il permanere dei problemi strutturali impedisce di prendere una posizione direzionale, specie oggi che il rendimento e lo spread offrono ben poca protezione dai rischi impliciti.

L’Italia deve inoltre fronteggiare la sfida di ampi collocamenti di debito pubblico in un anno come il 2014 che vedrà una sempre minore attenzione degli investitori per le obbligazioni a favore dei risky assets: 330 miliardi di euro, con picchi mensili superiori ai 30 miliardi in aprile, giugno, agosto e settembre. Tra i pochi fattori che favoriscono la stabilità del mercato obbligazionario rispetto a quello di altri paesi vi è il mix della sua dimensione (terzo al mondo) unita a un elevato peso degli attori domestici rispetto a quelli internazionali. Se prima della crisi più del 50% del debito italiano era in mani straniere, oggi più del 50% è nei portafogli d’investitori locali. Basti pensare che i titoli governativi italiani nei bilanci delle banche sono passati da 193 miliardi a fine 2010 agli attuali 403 miliardi di euro.

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